Il 1882 fu un anno molto intenso, ma memorabile, per Jigoro Kano. Gli venne assegnata una cattedra alla Gakushuin, una prestigiosa scuola privata di Tokyo, in quanto possedeva una tendenza naturale all’insegnamento e, inoltre, fondò il suo primo dojo: il Kodokan.
A quel tempo il corpo studentesco della Gakushuin era costituito interamente dai figli della nobiltà giapponese e alcuni studenti erano persino più grandi di lui. In ogni modo, ciò che lo sorprendeva, più di ogni altra cosa, era l’arroganza con cui la maggior parte degli studenti si comportava nei confronti dei loro insegnanti, tuttavia, è probabile che l’atteggiamento sprezzante degli studenti fosse da imputare alla loro educazione. Per Jigoro, quello, era un atteggiamento inaccettabile.
“Un insegnante che non riesce a farsi rispettare non sarà in grado di insegnare in modo efficace. Non sarò il servo di nessuno, per quanto nobili siano le sue origini!”, pensava tra sé e sé.
Questa decisione si dimostrò più saggia del previsto. Con il passare dei mesi guadagnò, gradualmente, il favore (ed il rispetto) dei suoi studenti. Malgrado la sua giovane età, era considerato un ottimo insegnante che utilizzava metodi d’insegnamento nuovi e rivoluzionari. Gli studenti erano affascinati dai dibattiti che affrontava durante le sue lezioni e molti lo consideravano una vera e propria boccata d’aria fresca.
Nonostante i suoi impegni didattici, Jigoro continuò ad approfondire i suoi studi sul jujutsu e a seguire un rigido programma di allenamento fisico, con l’intento di creare uno stile completamente nuovo. Il suo traguardo finale era la diffusione di questa nuova forma di jujutsu anche all’estero, per far sì che fosse praticata in tutti i paesi del mondo.
Jigoro decise che era giunto il momento di fondare un proprio dojo. In un quartiere di Tokyo, trovò un tempio buddhista, chiamato Eishoji, che aveva a disposizione varie stanze vuote da prendere in affitto. Dopo aver visitato il tempio, decise di affittare tre stanze: la più piccola la tenne per sé, quella media la destinò all’accoglienza dei suoi allievi e quella più grande la trasformò in un dojo, con un tatami costituito da dodici tappetini.
Il primo allievo di Jigoro Kano fu Tsunejiro Tomita. “Tsunejiro, come mio primo studente, sarai il mio governante personale”, gli disse Jigoro.
Il secondo allievo ad essere ammesso al dojo fu un ragazzo di nome Shiro Saigo, che in seguito sarebbe diventato uno dei migliori judoka della sua generazione. Tra gli altri allievi che si unirono alla scuola di Kano vi furono vari colleghi universitari, studenti ed ex-studenti.
Durante le sessioni di allenamento, l’impatto dei corpi proiettati pesantemente sul tatami rimbombava ben oltre le pareti del dojo e i curiosi, che si riunivano davanti alle finestre, dovevano alzare la loro voce per farsi capire. Data la situazione, non passò molto tempo prima che i vicini si andarono a lamentare dall’abate del tempio, il signor Asahi, il quale fece recapitare l’informazione delle lagnanze a Jigoro Kano.
“È vero che facciamo un gran chiasso”, ammise Jigoro, “Dopotutto questo edificio non è stato costruito per ospitare un dojo. Cercherò di eseguire alcune riparazioni. Molto probabilmente la maggior parte del chiasso è causata dalle assi del pavimento che vibrano quando qualcuno cade a terra”.
Qualche giorno dopo, però, il signor Asahi si ripresentò. Jigoro non era nel dojo, stava tenendo la sua lezione alla Gakushuin, e l’abate si lamentò con Tsunejiro.
La signora Seki, la cuoca, entrò nel dojo nel bel mezzo della discussione.
“Signor Asahi …”, disse la donna, “… mi spiace sentire che siete infastidito da questi poveri praticanti di jujutsu. Il loro Maestro non possiede molto denaro tanto che al padre, venuto recentemente a visitarlo, ha potuto offrire solo un piatto di avanzi. Il signor Kano non solo deve ospitare e dar da mangiare ai suoi allievi, ma deve anche sostenere tutti i costi di manutenzione del dojo e con il solo stipendio da insegnante ce la fa a malapena ad andare avanti. A causa del loro duro allenamento, questi ragazzi hanno un appetito da leoni. Avete visto quel vecchio cappello scolorito che indossa il signor Kano? Lo porta quando esce a fare la spesa, e deve camminare un bel po’ per trovare il pesce e le verdure più a buon prezzo visto che non può permettersi altro”.
“Capisco”, disse il signor Asahi, “Questo è un tempio molto antico. Penso che ciò sia la causa del problema”.
Lo stile di vita di Jigoro era alquanto sobrio. Oltre alle lezioni mattutine e pomeridiane alla Gakushuin, e a quelle serali al dojo, faceva poche altre cose. Visto che i suoi giovani allievi andavano a letto presto, la notte rimaneva sveglio a terminare i lavori di traduzione che accettava per guadagnare qualche soldo in più destinato alla manutenzione del dojo. Dopo un po’ di tempo, riuscì a mettere da parte abbastanza denaro per la costruzione di un nuovo dojo, che si trovava vicino al cancello frontale del tempio. Quest’umile edificio, privo di sfarzi, sarebbe in seguito diventato il primo dojo di Judo del mondo.
Convocati tutti i suoi studenti nel nuovo dojo, Jigoro si rivolse a loro con voce serena: “Voglio che tutti voi ascoltiate con molta attenzione le mie parole. La pratica del jujutsu è più di un semplice esercizio fisico. Dovrebbe promuovere anche la disciplina mentale e la virtù morale. Ma viviamo in un epoca in cui, per intrattenere il pubblico, i Maestri di jujutsu si mettono a combattere contro i lottatori di sumo nei teatri cittadini. Non è una riflessione che riguarda voi, ma al giorno d’oggi sono davvero pochi gli uomini dotati di un carattere virtuoso che sarebbero disposti ad approfondire veramente il loro interesse per il jujutsu. Credo sinceramente che la pratica debba migliorare sia le capacità fisiche che il carattere di un uomo. Spero che voi siate d’accordo con me. L’idea sarebbe riuscire a prevenire gli scontri e sviluppare un comportamento civile”. Fece una pausa, dopodiché alzò la voce e disse: “Da oggi in poi non praticheremo più il jujutsu ma qualcosa di nuovo che chiameremo Judo”. Jigoro si mise a spiegare: “Come ben sapete, la parola jujutsu è costituita da due caratteri: ‘ju’, che significa flessibile (o cedevole), e ‘jutsu’, che significa tecnica. Il carattere ‘do’, invece, significa cammino (o via). Nel Judo ci concentriamo principalmente sul ‘cammino’ in sé. Le tecniche saranno complementari nel conseguimento della comprensione della ‘via’. Per addestrare gli uomini virtuosi ad affrontare la vita il Judo è la via ideale. In questo dojo, che chiamerò Kodokan, io insegnerò il Judo”.
Da quel giorno in poi, l’arte marziale insegnata da Jigoro Kano sarebbe stata conosciuta al mondo con il nome di Kodokan Judo.
A quel tempo Tokyo stava diventando una metropoli frenetica ed un luogo dai contrasti sempre più marcati.
Nel cuore di quella città in piena evoluzione Jigoro continuava le sue ricerche. Consultava libri sulla dinamica e studiava ogni tecnica in modo scientifico. Aveva intenzione di sviluppare un sistema che, oltre ad essere costruito attorno ad un’arte marziale, enfatizzasse anche lo sviluppo fisico, intellettuale e morale del praticante. Stabilì, allora, l’inclusione, nel suo metodo, di lezioni mentali e morali applicabili nella vita quotidiana di ognuno.
Nel febbraio del 1883 il Kodokan venne spostato nel distretto di Kanda dove Jigoro aveva già aperto una scuola di lingua inglese, la Kobunkan. Il nuovo dojo fu organizzato in una stanza piuttosto piccola, dotata solo di dieci tappetini. Non solo lo spazio a disposizione era esiguo, ma nella stanza erano presenti anche delle grosse colonne. Inevitabilmente, appena possibile, il Kodokan venne nuovamente trasferito nel vicino distretto di Kojimachi. All’inizio si trattava di un’angusta stanza con otto tappetini ma poi, con l’eliminazione della colonna in essa presente, lo spazio disponibile divenne più del doppio.
A quel tempo Jigoro stava ancora imparando il randori assieme al Maestro Iikubo che rimaneva impressionato, giorno dopo giorno, dai progressi effettuati dal suo allievo sapendo che s’impegnava a fondo per perfezionare le sue tecniche di proiezione.
Non c’era giorno in cui Jigoro non praticasse il randori con ognuno dei suoi studenti. Il suo entusiasmo e il suo impegno erano tali che se gli veniva in mente una nuova tecnica nel bel mezzo della notte andava a svegliare un suo allievo, lo conduceva nel dojo e, assieme a lui, la provava subito. Se gli veniva in mente una tecnica originale mentre si trovava su di un risciò diceva al conducente di fermarsi e la provava su di lui nel bel mezzo della strada.
Il Maestro Iikubo rimase sbalordito dal numero di tecniche ideate da Jigoro tanto che, poco tempo dopo, gli concesse la licenza per poter insegnare il jujutsu dello stile Kito e gli consegnò i densho (i documenti segreti nei quali venivano illustrate le tecniche più complesse del Kito jujutsu).
Naturale conseguenza di ciò fu il fatto che molte delle tecniche di proiezione adottate da Jigoro erano basate su quelle del Kito jujutsu, molte delle tecniche di immobilizzazione, di presa e di soffocamento derivavano da quelle del Tenshin Shinyo jujutsu del Maestro Fukuda e molte delle tecniche di attacco diretto venivano da quelle del Tenshin Shinyo jujutsu del Maestro Iso.
Nell’autunno del 1884, a Tokyo, si tenne una cerimonia per celebrare l’apertura del nuovo dojo della scuola di Tenshin Shinyo jujutsu. Tra gli ospiti c’erano anche quattro studenti del Kodokan, fra i quali Tsunejiro Tomita. La loro presenza fu notata con entusiasmo da uno degli istruttori, il signor Hansuke Nakamura. Questi era uno degli insegnanti di jujutsu che allenava le forze di polizia della città. In una recente sessione di sparring uno dei suoi colleghi aveva sconfitto con facilità Shiro Saigo, l’allievo numero due del Kodokan, e gli istruttori di polizia presenti alla cerimonia si aspettavano che qualche altro allievo di Jigoro fosse lì per vendicarsi. Nakamura, sebbene fosse uno dei tanti ospiti, non ebbe nessuna esitazione a sfidare in un dojo yaburi (combattimento tra scuole) uno degli studenti del Kodokan, e la sua scelta ricadde su Tomita. Per difendere l’onore della sua scuola Tsunejiro non poté rifiutare la sfida. Malgrado fosse uno scontro impari, Hansuke era alto quasi due metri, se Tomita fosse stato sconfitto sotto gli occhi attenti di alcuni dei migliori esperti di jujutsu il Kodokan Judo sarebbe stato rigettato con lo scherno di tutti.
Nakamura si mise davanti a Tomita e, immediatamente, allungò il braccio e gli afferrò il bavero della giacca. Nello stesso istante Tsunejiro fece scivolare il piede sinistro tra le gambe di Hansuke e si lasciò cadere sulla schiena puntellando, contemporaneamente, il piede destro sullo stomaco dell’avversario. Tomita aveva appena eseguito una versione classica della tecnica tomoe-nage (proiezione a cerchio) e, la sua perfetta esecuzione, sorprese tutti. Passarono molti secondi prima che gli spettatori potessero apprezzare appieno ciò che era successo. Alla fine un applauso tardivo scoppiò all’interno del dojo.
“Provaci un’altra volta!”, gridò uno spettatore. A quel punto era in gioco l’onore del corpo di polizia. Nakamura balzò in piedi e si lanciò addosso a Tsunejiro con tutta la sua forza. Tomita reagì lasciandosi cadere di nuovo e Hansuke si ritrovò scaraventato a terra emettendo un tonfo assordante. Il gigante si rialzò in piedi e tutto ciò che riuscì a dire fu: “Nessuna tregua!”. A quel punto Nakamura, con la faccia pallida per l’umiliazione subita, era completamente preso da una furia omicida. Afferrò il bavero destro della giacca dell’avversario stando attento che non eseguisse di nuovo la tecnica tomoe-nage. Così Tsunejiro, nell’intento di cambiare tecnica, sollevò il piede sinistro, lo poggiò vicino al ginocchio destro di Hansuke e, subito dopo, tirò l’avversario in avanti. Questa tecnica, che si chiamava hiza-guruma (ruota sul ginocchio), funzionò. Nakamura cadde a terra, e non appena toccò il tappetino, Tomita lo bloccò con una tecnica di strangolamento al collo. Hansuke si dimenò in modo disperato ma non riuscì a liberarsi dalla presa che lo fece svenire. A quel punto lo scontro ebbe termine e il dojo era pervaso dal silenzio.
Da quel momento tutti quanti furono d’accordo sul fatto che il Kodokan Judo era un’eccellente arte marziale di nuova creazione.
Quella notte la notizia riguardante la vittoria di Tomita nei confronti di Nakamura si diffuse rapidamente in tutti i dojo di Tokyo.
“Tomita è il nostro eroe!”, gli studenti del Kodokan esultarono dalla felicità. “Un brindisi in onore di Tomita”, urlò un allievo di nome Yokoyama. “Non si beve nel dojo! È una regola!”, lo riprese Yamada, un altro studente.
Quella sera Yokoyama era lo studente responsabile della chiusura del dojo e, proprio qualche minuto prima di chiudere, andò a prendere una grossa bottiglia di sakè. Tutti gli altri studenti erano già andati via ad eccezione di Yamada.
“Lo facciamo adesso quel brindisi?”, chiese Yokoyama, e disobbedirono alla regola. Dopo un po’ udirono un rumore provenire dagli alloggi di Jigoro.
“Sta arrivando il Maestro! Cosa ci faccio con questa bottiglia?”, chiese Yamada e, preso dalla disperazione, la fece rotolare sotto la sedia del Maestro, proprio mentre Kano entrava nel dojo.
“Siete ancora qui?”, disse loro, “Va bene, allora parliamo un po’”. Jigoro si diresse verso la sua sedia e iniziò quello che, poi, si rivelò essere un lungo discorso sui kata.
“Prima dell’era Meiji molti Maestri di jujutsu insegnavano solo i kata. Ma io ho studiato sia il Tenshin Shinyo jujutsu che il Kito jujutsu, ed entrambi gli stili includono la pratica sia dei kata che del randori. Se dovessi paragonare il jujutsu ad una lingua allora direi che lo studio dei kata può essere associato allo studio della grammatica, mentre la pratica del randori può essere associata alla scrittura. Nell’esecuzione dei kata uno dei due praticanti indietreggia quando viene attaccato per poi rivolgere la forza dell’avversario contro lui stesso. Questa è la flessibilità del judo: una cedevolezza iniziale prima della vittoria finale”. Mentre Jigoro parlava, Yokoyama e Yamada mantennero lo sguardo inchiodato sul pavimento davanti ai piedi di Jigoro, terrorizzati dalla possibilità che la bottiglia di sakè rotolasse da un momento all’altro. Così fu. E si fermò proprio sul tallone del Maestro. Tuttavia Jigoro era così assorto nei suoi pensieri che non si rese conto di nulla.
Alla fine del suo discorso si alzò augurò la buonanotte ai suoi due allievi e tornò nel suo alloggio.
Una volta che il Maestro fu uscito dal dojo, Yokoyama rivolse lo sguardo verso Yamada e sospirò: “Una regola è una regola. Niente più brindisi”.
Il Kodokan Judo aveva acquisito una reputazione che si diffondeva con estrema rapidità.
Alcuni dicevano che il jujutsu era un’arte marziale migliore del Kodokan Judo mentre altri sostenevano l’esatto contrario. La discussione era particolarmente importante per l’Accademia Nazionale di Polizia del Giappone la quale esigeva che i suoi agenti venissero addestrati nella più efficace forma di arte marziale.
Gli agenti di polizia decisero, allora, che il metodo migliore per determinare quale dei due sistemi fosse il superiore era quello di organizzare una serie di incontri tra alcuni praticanti delle due discipline rivali. Inoltre, decisero che ogni squadra sarebbe stata rappresentata da un gruppo di quindici atleti.
Quando Jigoro venne a sapere della competizione proposta si rese conto che era in gioco tutto ciò per cui aveva lavorato in quei lunghi anni. Una sconfitta avrebbe potuto causare la fine del Judo.
Quattro degli allievi più anziani di Jigoro erano degli uomini dalle capacità eccezionali: Tsunejiro Tomita, Sakujiro Yokoyama, Yoshitsugu Yamashita e Shiro Saigo. Tutti e quattro assieme erano conosciuti con l’appellativo di Shitenno, ossia i Quattro Signori del Cielo, e tutti e quattro entrarono a far parte della squadra di Judo. Delle molte scuole di jujutsu esistenti la più famosa, forse, era la scuola Tozuka, considerata il portainsegna del jujutsu tradizionale.
La lotta per il predominio era in effetti uno scontro tra il vecchio e il nuovo.
La resa dei conti ebbe luogo l’11 giugno del 1886 durante il torneo di arti marziali dell’Accademia Nazionale di Polizia. Malgrado le grandi aspettative la gara si rivelò una competizione impari: la squadra del Kodokan vinse dodici incontri, ne perse due ed uno finì in parità.
La notizia del trionfo del Kodokan, che si diffuse in tutto il paese, mise fine al dibattito riguardo i meriti relativi al Judo e al jujutsu e l’Accademia Nazionale di Polizia incluse il Judo nel suo programma di addestramento.
Pian piano il Kodokan Judo cominciò ad essere accolto come un’efficace e benefica forma di educazione fisica.
L’evidente superiorità del Judo sul jujutsu era dovuta principalmente al severo programma di addestramento del Judo, all’insegnamento attento impartito dallo stesso Jigoro e al grande entusiasmo dei suoi allievi.
Successivamente il Kodokan fu ampliato e venne aperto un nuovo dojo a Nirayama.