Con gli esercizi di kata si trasmette all’allievo il patrimonio di nozioni che la tradizione ci ha tramandato dal 1882 ad oggi.
“È importantissimo che l’istruttore spieghi in maniera esaustiva, dettagliata e precisa ogni singolo aspetto di cui è composta una tecnica di Judo. Deve spiegarne la “forma”, l’”essenza”. Solo così si può mettere lo studente nelle condizioni ottimali per poter capire, apprendere e contestualizzare le varie tecniche, in modo da non limitarlo ad una semplice ripetizione automatica dei movimenti visti, dandogli, di conseguenza, la possibilità concreta di crescere e di migliorarsi con il trascorrere del tempo ”.
Italo GASBARRI
Gli esercizi di kata sono:
1.I WAZA (le tecniche).
Sono suddivise in tre grandi famiglie:
1.1.NAGE-WAZA(tecniche di proiezione);
1.2.KATAME WAZA (tecniche di presa);
1.3.ATEMI-WAZA(tecniche di colpo).
I NAGE-WAZA.
“Mi piace pensare a questa famiglia di tecniche come a delle
continue linee curve ”.
Italo GASBARRI
In questo concetto vengono espressi due caratteri fondamentali dei nage-waza: il primo riguarda la fluidità che si deve tentare di esprimere (in maniera uniforme e continua) nei gesti eseguiti ed il secondo riguarda il carattere “adattivo” degli atti stessi.
Nel trattare le varie tecniche bisogna analizzare i tre momenti fondamentali di:
1.kuzushi, lo squilibrio.
“In questa fase bisogna trasmettere all’allievo il concetto fondamentale che le tecniche del Judo non vengono effettuate con la forza fisica ma con la consapevolezza che ad ogni azione corrisponde una reazione più o meno definita.
Conoscere il corretto modo di squilibrare l’avversario vuol dire
percepire sul proprio corpo la sensazione di disagio che prova
uke in questi, brevi, attimi ”.
Italo GASBARRI
2.tsukuri, l’adattamento.
Questa è la fase in cui tori, una volta innescato il processo di squilibrio di uke, porta la tecnica.
È questo il momento in cui un judoka si trova ad applicare il
principio cardine del Judo, la flessibilità (ju), in quanto è
“costretto” ad adattare il proprio corpo e, di conseguenza, i
propri movimenti alla nuova situazione in cui viene a configurarsi uke.
“Fare in modo che l’allievo si abitui a ragionare, a capire, ad adattarsi, ad essere mentalmente flessibile, evitando quindi che si limiti a copiare, in maniera automatica, i movimenti visti, fa sì che esso stesso diventi capace di gestire, in situazioni dinamiche, un qualcosa che si è appreso staticamente”.
Italo GASBARRI
Questo è un concetto di fondamentale importanza perché, dato che ogni persona è diversa dall’altra, le reazioni che uke può avere, stimolato sotto l’azione di tori, sono mutevoli.
3.kake, la proiezione.
I KATAME-WAZA.
Questi waza sono mirati al controllo dell’avversario conseguente alla fase del kake.
È importante far capire all’allievo che, in questo momento, bisogna canalizzare le proprie energie al controllo di punti ben determinati del corpo di uke, in modo da non subire inutili perdite di energia.
A concorrere alla buona riuscita di queste tecniche contribuiscono due fattori: l’assunzione di una giusta configurazione corporale, che ci permette di limitare i gradi di libertà dell’avversario (da infiniti a massimo tre) ed un corretto uso del nostro tai-chi (l’energia del corpo).
Bisogna trasmettere il concetto che: non è la forza fisica a dare la possibilità di mantenere passivo l’avversario, bensì, e ancora una volta, la capacità di tori di adattare il proprio corpo alla struttura fisica di uke in modo da tendere al controllo di alcuni punti cardine che vanno ad annullare l’energia pura che esprime l’avversario.
Rispondere alla forza con una nuova espressione di forza fa sì che ci sia un’inutile spreco di energia.
Bisogna comprendere che: se si tende ad irrigidire il proprio corpo ci si priva della possibilità di renderlo mutevole agli stimoli esterni, derivanti dalla reazione di uke.
Al contrario bisogna essere “morbidi” ed essere pronti a cambiare in continuazione in modo da arrivare sempre, e comunque, ad una, nuova, situazione di controllo.
Gli ATEMI-WAZA.
Tali tecniche, mirate a colpire i punti vitali di chi si ha di fronte, derivano dalla branca della medicina.
Sono state studiate a partire da principi curativi e trasformate in un qualcosa di difensivo.
Chi conosce bene, e a fondo, queste tecniche, dice il maestro Jigoro Kano, è in grado di dare, o togliere, la vita.
Questa è la famiglia di tecniche meno conosciuta del Judo.
“Credo che tale fatto sia dovuto al forte accento agonistico che è venuto ad assumere nel tempo questa disciplina. Personalmente, penso che questa situazione sia fortemente penalizzante, per il Judo stesso, in quanto si vede derubato di una delle sue componenti più espressive.
Ciò accade perché nelle competizioni sportive si usa, per ragioni di sicurezza, solo il randori.
Mi spiego. Il Judo, nella sua completezza, è formato da due tipologie di combattimento: il ran (a distanza) ed il randori (con le prese). Questa distinzione fu operata da Jigoro Kano in conseguenza del fatto che i suoi allievi, spesso, erano soggetti a degli infortuni. Accade, però (oggi), che la parte del vero e proprio ran, viene completamente messa da parte a favore
della pratica agonistica.
Ad aiutarci a capire quanto questo modo di operare sia sbagliato ci vengono in aiuto i kata.
Nel Judo esistono otto forme di kata:
1. seiryoku-zen-yo-kokumin-taiiku-no-kata;
2. nage-no-kata;
3. katame-no-kata;
4. ju-no-kata;
5. kime-no-kata;
6. kodokan-goshin-jitsu;
7. itsutsu-no-kata;
8. koshiki-no-kata.
Se li andiamo ad analizzare scopriamo che: il primo sottintende una forma di ginnastica, il secondo ed il terzo mettono in luce gli aspetti tipici del randori (e per questo vengono, anche, definiti randori-nokata), i restanti cinque esprimono i fondamenti del ran.
Per quanto detto si apprende, ahimè, che oggi si insegna solo il 25% di tutto il patrimonio che Jigoro Kano ci ha lasciato ”.
Italo GASBARRI
2.L’UCHI-KOMI (letteralmente vuol dire “invasione”, nel Judo indica
le ripetizioni).
Questo esercizio è di fondamentale importanza per l’allievo che si avvicina all’apprendimento della tecnica base. Spesso è usato, con fini agonistici, per favorire l’aumento della velocità di esecuzione del waza in esame ma, questa, è un’interpretazione sbagliata del principio che è alla base dell’esercizio. Di certo si presta bene allo scopo ma il fine è altro. Nel Judo la velocità in senso assoluto è un non senso.
L’uchi-komi deve essere improntato in maniera tale da servire lo scopo di perfetto apprendimento delle dinamiche legate alla tecnica in oggetto.
L’allievo deve fare propri: le prese, gli squilibri, i movimenti, le traiettorie, i tempi e, soprattutto, l’opportunità generata dall’interferenza tra il visibile (dei movimenti) e l’invisibile (delle intenzioni).
I movimenti, dapprima meccanici, devono divenire fluidi, naturali, incoscienti.
“Si deve lasciar credere ad uke che l’inconsistente sia più reale dell’essere e, di conseguenza, il vuoto più reale del pieno ”.
Italo GASBARRI
3.Il BUTSU-KARI (letteralmente vuol dire “concentrare l’energia”, nel Judo indica il modo per rinforzare i punti salienti di un waza).
Questo esercizio è immediatamente successivo all’uchi-komi e di questo costituisce conclusione e completamento.
Si esegue in tre persone: uke viene leggermente trattenuto da un compagno, nella direzione opposta a quella dello squilibrio, mentre tori esegue la tecnica.
In questo modo si agisce su tori sotto due punti di vista: lo si mette nelle condizioni di impegnarsi al massimo in ogni entrata e lo si costringe a controllare al meglio il proprio corpo (in modo da
non perdere lui stesso l’equilibrio).
4.Il KAKE-AI (la “proiezione spirituale”).
In questo esercizio tori si trova a dover fronteggiare il momento della proiezione in tutta la sua intensità. Egli deve raccogliere tutte le energie fisiche e spirituali che possiede per concentrale in un unico, intenso, istante.
Deve visualizzare la tecnica che intende portare, sentendo, ben chiaramente, ogni parte del suo
corpo che risponde e ha coscienza di quello che egli sta per richiedergli.
L’impeto deve nascere da dentro e deve esplodere
nell’esecuzione del waza.
Questo esercizio è una manifestazione esteriore di un processo interiore ben più articolato e complesso.